Lunedì 14 novembre 2011 Teatro Manzoni – ore 20.30
TRULS MØRK HAVARD GIMSE Ludwig van Beethoven Johannes Brahms Leós Janáček Dmitrij Šostakovič violoncello pianoforte Sonata in Do maggiore op. 102 n. 1 Sonata in Fa maggiore op. 99 Pohádka (Racconto) Sonata in re minore op. 40
Tradizione e innovazione nella letteratura per violoncello e pianoforte
di Sara Bacchini
Quando Beethoven, nel 1796, si accinse a scrivere le prime sonate per violoncello e pianoforte, non aveva dietro di sé illustri precedenti ai quali rifarsi, dal momento che una letteratura specificamente pensata per questo organico strumentale, in effetti, non era esistita né durante il barocco, né durante il classicismo. L’apporto musicale e timbrico del violoncello era stato più che altro relegato a funzione di basso continuo negli ensembles strumentali sostanzialmente un’amplificazione sonora della linea del basso che acquisiva così maggiore importanza armonica e melodica.
Beethoven cercò di sintetizzare le possibilità del violoncello, che pure in passato erano state giustamente riconosciute, puntando sulla sua duttilità, sulla sua capacità di rendere in modo espressivo le tonalità del chiaroscuro (e dunque di passare senza fratture da un registro sonoro all’altro), ma anche di saltare dal basso all’acuto senza dar l’impressione di rompere la continuità del discorso musicale.
Le due Sonate op. 102 appartengono all’ultima fase della produzione beethoveniana e, insieme alla Sonata per pianoforte op. 101, rompono l’apparente fase di stasi che si prolungava dal 1813, uno tra i periodi più neri e difficili nella vita del compositore, che in quegli anni si trovava ad affrontare i forti disturbi della propria malattia in solitudine e indigenza finanziaria.
Ultimate nel 1815, le due sonate riuniscono tutti quei procedimenti di scrittura che Beethoven aveva più volte impiegato anche in lavori remoti come tratti isolati, ma che ora grazie alla loro combinazione giungono a definire la nuova identità stilistica della sua musica: il preponderante interesse per il contrappunto, specialmente per il canone e la fuga; l’impiego dei trilli o altre figurazioni a fini non solo ornamentali; il recitativo strumentale elevato a nuovi vertici di intensità espressiva; il contrasto o le combinazioni di suoni estremi; progressioni armoniche audaci; e l’affiorare, infine, di un nuovo e trasfigurato gioco sonoro. L’impiego coerente di tutti questi mezzi in un linguaggio originale non è ancora pienamente acquisito in queste due sonate, che risultano quindi tanto più rivelatrici di un’attività compositrice ancora in cammino.
La Sonata in re maggiore op. 102 n. 2 viene considerata la più sperimentale e ardita tra quelle che Beethoven dedicò al duo violoncello e pianoforte. Non a caso, i romantici della generazione a lui successiva (Schumann, in primis) hanno sempre guardato a questo lavoro come ad un esempio illuminante per il loro stile, adombrato qui specialmente dal ritorno, nel finale, dei temi del primo movimento.
L’inizio è un Allegro con brio senza precisa configurazione formale, basato su melodie dagli intervalli spigolosi e dal netto contrasto tra i due strumenti. Segue un Adagio con molto sentimento d’affetto, in cui il motivo d’avvio, esposto con la solennità e la fisionomia di un corale, si apre a successioni di suoni che sembrano condurre ad uno stato di assoluta astrazione in cui l’emotività pare come sospesa. Questa pagina in forma tripartita, la cui parte centrale modula dal modo minore al maggiore, è direttamente collegata al conclusivo Allegro fugato, dalle sonorità così eccezionalmente dure da suscitare forti perplessità non solo nel pubblico e nella critica di allora ma anche nello stesso compositore, il quale in un solo caso sarebbe successivamente tornato su sonorità paragonabili a queste e andando incontro a difficoltà simili con gli esecutori: la Grande fuga op. 133 per quartetto d’archi.
Tra i compositori romantici che maggiormente influirono sullo sviluppo della letteratura per violoncello e pianoforte, un posto di assoluto rilievo occupa Johannes Brahms, che dedicò a questo organico importanti capolavori cameristici, elevando le possibilità timbriche, armoniche e melodiche dei due strumenti verso un dialogo finemente intrecciato e formalmente complesso.
Ogni anno, con l’arrivo della primavera, Brahms lasciava Vienna. Nel 1886 scelse di trascorrere la propria vacanza in Svizzera, nel villaggio di Hofstetten, sulle rive del lago Thun, dove sarebbe tornato per tre estati successive. I periodi qui trascorsi sono tra i più ricchi per la sua carriera, qualitativamente e
quantitativamente: sono ben dodici, infatti, le composizioni importanti che nascono sulle rive di questo lago tranquillo. Oltre alla seconda sonata per violoncello e pianoforte op. 99, durante il primo soggiorno Brahms compose anche la Sonata op. 100 per violino e pianoforte, il Trio op. 101 con pianoforte e i Lieder op. 105, op. 106 e op. 107. Le esecuzioni dei brani avvenivano in modo informale e sempre alla domenica, in casa degli amici Widman, con i fratelli Hegar a dividersi le parti di violino e violoncello, mentre Brahms stesso si sedeva al pianoforte.
Il primo movimento della Sonata op. 99, Allegro vivace, è di notevole impatto per il carattere drammatico e passionale, oltre che per gli audaci slanci armonici dei due strumenti e la struttura sinfonica dello svolgimento. Energico e vigoroso, contrasta assai col movimento seguente: un Adagio affettuoso in forma di lied tripartito, dal tono lamentoso e poetico tipico dello stile brahmsiano.
Segue l’Allegro appassionato, sorta di intermezzo in carattere di ballata, nel quale gli episodi estremi basati su un incessante movimento di crome, sono particolarmente interessanti dal punto di vista ritmico sia per la loro veemenza sia per il loro contrasto col delicato trio centrale. Il finale, Allegro molto, è costruito in forma di rondò breve e relativamente libero, su un tema di reminescenza popolare alternato a strofe più ritmiche, quasi di marcia: la coda che conclude il pezzo tratta con grande fantasia il motivo del ritornello, alternando pizzicati e glissandi.
Ulteriori innovazioni linguistiche e formali nella letteratura cameristica per violoncello e pianoforte non potevano che derivare dai linguaggi musicali dei compositori del Novecento, in particolare da Leós Janáček e Dmitrij Šostakovič. Il credo poetico di Janáček, né propriamente tardoromantico né tantomeno “antiromantico”, è principalmente basato sul superamento delle consuetudini compositive precedenti ma allo stesso tempo sulla convivenza promiscua tra vecchio e nuovo, tradizione e innovazione, passato e futuro. Nel compositore moravo spicca il doloroso e ardente lirismo della musica slava, immerso in un senso primordiale di tragedia, sottolineato da una certa tendenza a drammatizzare ogni cosa, la natura, la patria, l’amore.
L’uso dell’armonia, fortemente personale, è libero: anche se egli utilizza accordi perfetti, la loro concatenazione è inedita ed imprevedibile, coerente al suo interno ma lontana tanto dai modelli romantici quanto dagli schematismi modernistici. La Fiaba per violoncello e pianoforte, ispirata alla favola in forma di poema epico sullo zar Berendej, venne completata nel 1910. La versione originale era in quattro parti, mentre quella rifatta attorno al 1923 ne avrà tre soltanto. É quindi difficile stabilire come i movimenti del brano illustrino le vicende dello zar e il suo amore per la saggia zarina, anche perché il foglio illustrativo scritto dall’autore si riferiva alla versione in quattro tempi, ma emerge in maniera evidente la narratività tipicamente slava tra gli opposti dell’eroismo e della malinconia. Nel preludiante Con moto iniziale, che sembra una pantomima di attese ed esitazioni, lo stile è semplice anche se molto modulante. Il secondo movimento, ancora Con moto, ha una figurazione melodica intricata, un groppo di note sovrapposte dai due strumenti dal quale prendono avvio arpeggi schumanniani che si aprono a continui spazi armonici, spostandosi verso un apice drammatico. Il terzo tempo, Allegro, è una danza felice, vicina al clima di un canto popolare russo: anche qui l’armonia è mobile, ma ad emergere è la grande suggestione poetica dei passi del violoncello senza accompagnamento del pianoforte. O meglio, dei vuoti che il pianoforte gli crea.
Linguaggio altrettanto personale e armonicamente incisivo, è quello musicale di Šostakovič, le cui scelte stilistiche, l’intensa drammaticità, lo humor corrosivo, le lugubri estasi liriche, sono mezzi di autodifesa artistica in un processo di progressivo rifiuto della realtà contingente per una realtà fantastica che diventa sempre più chiara ed attraente.
Si è soliti suddividere la creatività del compositore russo in tre grandi periodi, coincidenti con altrettanto importanti mutamenti di politica culturale imposti dal regime sovietico: una prima fase d’avanguardia fino alla composizione della Quarta Sinfonia (1935); una fase normalizzata dal canone estetico del realismo socialista, caratterizzata principalmente dalla creazione di sinfonie grandiose, dal recupero della tradizione del passato e dal ripiegamento nel privato in ambito cameristico; infine, dopo la morte di Stalin, una fase di cauta apertura agli idiomi e alle tendenze occidentali. Fino agli anni prossimi alla Seconda Guerra Mondiale, quindi, Šostakovič dimostrò un interesse limitato ed occasionale nei confronti della musica da camera, preferendole di gran lunga la composizione di sinfonie, opere teatrali e musiche per film.
La Sonata per violoncello e pianoforte op. 40 del 1934 appartiene quindi alla fine del primo periodo della creatività di Šostakovič, ed oscilla tra le tendenze tardoromantiche dell’Allegretto non troppo iniziale e quelle neoclassiche dell’Allegro finale, passando attraverso le trascinanti movenze di danza del secondo movimento (Allegro) e i lugubri umori del terzo (Largo).